Recensione a “Naturalmente Comunisti” di Felice Cimatti, Bruno Mondadori 2011

Il testo qui presentato si costituisce come una contro-recensione del testo Naturalmente Comunisti di Felice Cimatti scritta da Giordano Tedoldi per Libero, ed apparsa qui.

Si è contestata spesso l’idea secondo cui esista un “modo politico” che sia confacente alla naturale vita biologica, ed intellettuale, dell’umano. Una delle principali argomentazioni è riassumibile come segue: se la politica è un prodotto culturale dell’uomo e sono esistite diverse forme di organizzazioni di quest’ultima, allora non possiamo individuare come naturale una di queste organizzazioni del sociale essendo scaturite tutte da un’unica specie biologica, ma poi costituitesi come completamente diverse fra loro. La democrazia, allora, è venuta a costituirsi – parafrasando Leibniz –  come il minore dei mali possibili che sia monito da perseguire di fronte alle grandi catastrofi dei totalitarismi che ben conosciamo. Ma se invece, anche solo per un momento, ci fossimo avvicinati a quest’utopica visione naturale del politico ma non ce ne fossimo accorti? In modo articolato e complesso Felice Cimatti, docente di Filosofia del linguaggio e della mente all’università della Calabria, cerca di sostenere questa tesi volta a dimostrare – attraverso un percorso filosofico e biologico – che sia il comunismo ha costituirsi, nella sua matrice più generale, come «il futuro biologico della specie umana». La fortuna di recensire un libro uscito già da qualche mese è quella di poter osservare, almeno in parte, la sua ricezione nel “palinsesto culturale”. Il 14 Marzo 2011 Giordano Tedoldi ha recensito il libro di Cimatti cercando di distruggerlo dalle radici, sostenendo che il solo titolo del libro sostenga la tesi, da rigettare,  «che chi comunista non è, o addirittura fosse anticomunista, è tagliato fuori dalla Physis, dalla Natura profonda e essenziale dell’uomo». Ho letto molto attentamente il testo di Felice Cimatti, e non ho trovato traccia alcuna della tesi che qui sostiene Tedoldi che pure sembra descrivere molto bene l’architettura del volume, suddiviso in sei capitoli di cui quattro indagano il rapporto tra linguaggio e natura umana, e due quello del capitalismo inteso come dispositivo d’oppressione – alla Marx, Adorno, Marcuse, ecc. La tesi avanzata dal filosofo del linguaggio è ben argomentata, ovvero ognuna delle premesse è giustificata e non si trovano assunzioni completamente profetiche o autoreferenziali. Alcune delle idee condensate nel volume possono effettivamente sembrare astruse, ma lo sono come astrusa è la lettura dell’ultimo Heidegger se non si è letta prima tutta la sua produzione giovanile. Teboldi avrebbe potuto costruire un controargomento a Cimatti, ma si è limitato a paragonarlo a Hegel sostenendo la sua “oscurità concettuale” paragnonando certi passaggi del suo testo a quelli della Fenomenologia dello spirito che, per inciso, è uno dei capisaldi di tutto il pensiero filosofico occidentale. Il volume firmato da Felice Cimatti presenta poche sbavature e non ci costringe ad accettare la tesi secondo cui solo e soltanto il comunismo si costituisca come via di fuga da problemi odierni. Piuttosto, la tesi interessante è quella che ci invita ad un ripensamento generale delle categorie politiche che costituiscono il metro di paragone contemporaneo per entità come giustizia e libertà. Argomentando attraverso alcune scoperte scientifiche che hanno segnato il panorama filosofico, come il generativismo di Chomsky, la modularità Fodoriana e i neuroni  specchio di Gallese, Rizzolatti e Sinigaglia molte delle tendende innaturali a cui l’umano è costretto in società vengono evidenziate e ben discusse. Il mito di una natura umana stabile lascia spazio al possibile come categoria propria dell’esistenza del bipede implume, la chimera di fissare il naturale una volta per tutte nella genetica, o in un’istituzione sociale che ci leghi una volta per tutte cade di fronte alla consapevolezza, ben esposta da Cimatti, che esiste l’uomo linguistico, capace sempre, in virtù della capacità di parola, di rinegoziare i suoi rapporti con i propri simili e di immaginarne di migliori ed è interessante la discussione di principi come quello dell’infinitezza discreta che sembrano assumere un ruolo fondamentale anche nel dibattito filosofico in teoria della natura. Cimatti, al contrario di come crede Teboldi, non è un nemico qui ed ora della proprietà privata, ma auspica un ripensamento di concetti come “possesso” o “mio” in modo da correggere il brutto tiro di un sistema economico produttivo che sembra consumarsi, ed è noto ai giorni nostri, in svariate crisi economiche ed ecologiche. Criticare, poi, le citazioni di Marx ha poco senso se si è letto il volume sin  dall’introduzione. Infatti, Cimatti argomenta sostenendo che è la visione di Marx, rimasta un’utopia irrealizzata o fraintesa dai totalitarismi, ad essere l’obiettivo di un’umanità che voglia risolvere i problemi di sfruttamento, morte e sudore del capitalismo ben esposti nella “fotografia” del sociale che il filosofo Max Horkheimer (Crepuscolo, 1933) riassume nella metafora del grattacielo in cui, se dai piani alti dei magnati dei trust è possibile una bella vista sul cielo stellato, nei larghi territori dei Balcani – si costituiscono come camera di tortura –  ed infatti «in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali». Cimatti cerca di individuare, attraverso l’efficacia di un’argomentazione tanto scientifica che filosofica, le vie di fuga alla miseria che è descritta proprio da Horkheimer, e che già Marx aveva descritto cercando di difendere gli alienati del nostro tempo che, spesso, leggono dei libri in cui le vie di fuga sono tratteggiate e, appena possibile, li richiudono con terrore ricominciando a salire le scale del grattacielo. Come spesso accade in filosofia non è certo se Cimatti abbia ragione, ma ha ben difeso una sua tesi sforzandosi di non insultare nessuno e continuando per la sua strada cercando sempre di fondare le assunzioni volte a costruire il terreno in cui scaricare, con precisione, le batterie di argomenti su cui ha certamente riflettuto a lungo. Sarà poi davvero il comunismo a salvarci dal baratro? Questo non possiamo dirlo, ma possiamo sicuramente ringraziare Cimatti per aver contribuito ad evidenziare i difetti di un sistema economico produttivo che rischia, nel suo eterno durare, di ingoiarci intrappolandoci tutti.

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