Altissima Crisi

Apparso su Il Cambiamento, 5/11/11

A dispetto di ogni possibile ottimismo qualcosa, entro il sistema economico occidentale, comincia a vacillare davvero. La “crisi”, così chiamiamo questo preciso momento d’incertezza per il futuro, sembra coinvolgere ogni riflessione sugli odierni stati di cose. Giornali, libri, televisioni: tutto ruota attorno al concetto di consumazione storica del modello socioeconomico che chiamiamo convenzionalmente “capitalismo”.

Assembler, Kosmur (http://kosmur.deviantart.com/gallery/)

Analisti e politoligi si sforzano, ormai da anni, di individuare possibili vie di fuga dall’idea di fallimento proponendo soluzioni che cercano, rimescolando i pezzi del puzzle che compongono il sociale, di ricostruire un quadro generale dell’economia che possa ancora garantire le condizioni di possibilità per il benessere dell’occidente. Nonostante gli sforzi, i summit internazionali, i tentativi di rinnovare le produzioni dei beni riformulando l’uso delle cose, il problema sembra essere più esteso coinvolgendo, non soltanto i singoli pezzi del puzzle, ma ogni possibile configurazione di questo. Giorgio Agamben, da tempo ritiratosi dallo IUAV di Venezia, ha da poco dato alle stampe per Neri Pozza il penultimo tassello della serie Homo Sacer: Altissima Povertà. Mai come in questo testo le analisi del filosofo sono state così attuali ed attualizzabili intervenendo, con una dirompenza assoluta, proprio sul tema della fine di un sistema economico analizzato, tuttavia, in relazione alle forme-di-vita che vivono questo momento. Il paradosso analizzato da Agamben è quello che regola il binomio indissolubile vita- regola per cui le due entità sembrano confondersi nel loro definirsi; un paradosso che sembra essere anche il fondamento ultimo di questa crisi e, infatti, proprio nel timore della decostruzione delle regole che scandiscono le vite dell’umano sembra celarsi la paura ultima di una mancanza di ciò che oggi abbiamo, ma che domani potrebbe svanire. Agamben ci invita ad osservare un caso esemplare in cui la vita sembra essersi affermata nella sua autonomia: quello del monachesimo originario – da Pacomio a Francesco – in cui l’ossessione per il tempo, diviso tra contemplazione e lavoro, sembra essere, in realtà, proprio il rifugio dall’ossessione della norma. Ciò che la crisi, col suo spauracchio della fine delle risorse o della perdita dei lavori, manifesta impietosa è la possibilità che l’umano/cittadino possa ritrovarsi  – ex-abrubto – senza un insieme di regole e precetti che scandiscano la sua stessa esistenza. Questa fine delle regole, che rappresenterebbe poi una presa in ostaggio del Diritto come dispositivo che si esercita sul cittadino, e mai sull’umano, coinciderebbe con il termine ultimo della sovra-produzione del beni che regolano il libero mercato. Senza lavoratori in grado di acquistare finirebbe, inesorabilmente, anche il registro produttivo su cui si erge il grattacielo di ricchezze dei magnati dei trust.  Fin quando continueremo, seguendo l’andazzo diffuso, a cercare le soluzioni volte a rattoppare i problemi le cose non potranno che peggiorare. Attraverso il monachesimo, rivendicazione esemplare dell’altissima povertà, Agamben conduce il pensiero a comprendere l’esistenza di un modello alternativo di vita umana, integrata nell’ordine delle cose, ed indipendente dalla sovraesposizione di stimoli che spingono l’uomo occidentale contemporaneo a desiderare, e a sacrificarsi per ottenerlo, tutto ciò di cui potrebbe serenamente dispensare. Il nostro tempo deve ancora fare i conti con gli “effetti collaterali” del falso benessere che si è diffuso dal dopo guerra ad oggi ma, attraverso un ingresso del pensiero etico nel pandemonio risolutivo dei problemi, molte cose potrebbero chiarirsi nelle cause e negli effetti. Chiaramente molti dei nefasti scenari che si dipanano post-crisi potrebbero essere dispensati con delle rinunce ma, attenzione, il termine stesso “rinuncia” assumerebbe contorni differenti se ragionassimo sui limiti dei nostri reali bisogni. La crisi economica, non riguarda solo l’esaurimento delle risorse o la cattiva gestione dei denari, ma attraversa il concetto stesso di umanità. Possiamo pensare una forma-di-vita, un umano, del tutto sottratto alla regolamentazione del lavoro/guadagno/spendo che soggiace alle condizioni di possibilità del capitale? La risposta è positiva, e attraverso casi esemplari come quello del monachesimo – ma di certo riproducibili anche in chiave laica – possiamo imparare alcuni strumenti per salvarci da una crisi che potrebbe far mancare proprio tutto ciò di cui non abbiamo bisogno. Le alternative all’oblio che inquadrano una vita nel suo uso comune, e non nelle sue proprietà, non seguono il sentiero dell’astrattezza: tutto ciò è possibile qui e ora, e con gli strumenti che abbiamo. Riflettendo su ciò che serve davvero, su ciò che basta per rendere degna una vita nel suo vivere, possiamo ri-emergere dalla paura che segna questi giorni.

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