Il pianto dei cani morti

Un mio articolo apparso sul settimanale Gli Altri oggi, 23/12/2012

Il punto di vista morale (moral point of view), dicono i filosofi che combattono contro il relativismo, è qualcosa di superiore ai nostri interessi: è oggettivo e non contingente. Sarà meglio non svelare quest’arcano mistero alle autorità di Kiev che, in vista degli Europei del 2012, hanno deciso di dare una “ripulita” alle loro strade per renderle, dicono, più gradevoli al passeggiare dei turisti che affolleranno le vie in preda all’estasi calcistica. Fin qui, direte voi, nulla di strano. Un atto di “civiltà”, addirittura di pubblico decoro. Tuttavia, le allegre pulizie per presentare l’Ucraina al mondo, hanno come oggetto, non cartacce o sporcizie di vario genere, ma animali non umani che, almeno loro tra i tanti uccisi con leggerezza, godono di un certo rispetto – quello che è possibile entro la domesticazione – nelle società occidentali. Stiamo parlando, si sarà compreso, dei cani. Possiamo far trovare dei cani randagi per le strade di Kiev ai ricchi appassionati di calcio che portano soldi al turismo ucraino? Certamente no, avranno pensato i geni ribelli che amministrano Kiev (ma la stessa cosa è successa in altre città di Ucraina, come Lugansk, ed in Polonia), e quindi bisogna trovare una nuova collocazione ai fastidiosi quadrupedi. Quale? Il canile? Una situazione temporanea? No. Si è optato per l’eliminazione di ogni cane che facesse capolino, col suo sguardo perso e cupo, tra le vite impegnate dei tifosi: troppo presi dal gioco del pallone per pensare a quello della vita in cui l’umano, come ogni tradizione che si rispetti dalla sua comparsa su questo pianeta, dispone delle vite – già sufficientemente offese – degli animali non umani. Come se ne bastasse, le amministrazioni locali, hanno addirittura stanziato del denaro per il “lavoro fai da te”; ovvero, ogni cittadino che uccide un cane, avrà in cambio circa 10 euro: in totale – solo a Kiev – sono stati stanziati, numeri ufficiali, circa 100.000 euro di budget: dovrebbe essere abbastanza semplice calcolare quanti animali saranno uccisi all’esaurirsi dei fondi. Ora, come era lecito aspettarsi, animalisti di ogni dove hanno sollevato – uniti come capita di rado – la bandiera del disgusto e, come succede di consueto, le autorità che si sono fatte artefici di morte e dolore dei cani di Kiev, Lugansk, etc., hanno risposto issando il vessillo dell’indifferenza: trincerati dietro al silenzio dei no comment, forse,  in amministrazione  hanno potuto addirittura ascoltare le grida e il pianto dei cani morti. Storie dell’est Europa, si dirà indignato l’italiano che legge questo articolo. Ma tuttavia, pregiudizi geografici a parte, la violenza dell’uomo nei confronti degli animali non umani sembra non avere confini spazio-temporali ben definiti. Ogni epoca, ed ogni popolo, ha fatto degli animali sicuro bersaglio per il sostentamento e per il divertimento e sempre i filosofi, quelli da cui siamo partiti, hanno chiamato questo atteggiamento violento specismo: l’ideologia che spinge l’uomo a giustificare il profondo dolore che infligge all’altro da sé, all’animale non umano. E sempre l’italiano, che di certo si sarà indignato nel sentire quello che fanno in Ucraina o in Polonia, sarà altrettanto disgustato dal sapere che il pianto dei cani morti arriva fino in Italia, nel profondo nord lombardo: nei paesaggi bresciani resi immortali dal Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, nello specifico a Montichiari. Questa volta, i cani, non sono più dei fastidiosi esseri da eliminare ma dei preziosi oggetti dove esercitare le proprie ricerche scientifiche su malattie gravi e complesse, il tutto per garantire benefici all’umano “civile”, lo stesso indignato dinnanzi allo spettacolo di morte inscenato a Kiev. Anche in questo caso, la protesta animalista percorre unita il corridoio dell’incoscienza, ma anche in questo caso l’indifferenza è stata l’unica vera risposta delle autorità bresciane. Cosa ci insegnano, in fin dei conti, Brescia e Kiev? L’ambivalenza dello sfruttamento animale. In Ucraina o in Polonia, a causa del sempre caro “pallone ottundi menti”, i cani sono cremati all’istante in forni crematori mobili, dopo essere stati avvelenati con un veleno per topi (topi che, infatti, non se la passano meglio e su cui, invece, gli animalisti si dividono ingenuamente); in Italia, nel cuore pulsante della “Padania che lavora”, gli stessi cani sono conservati con cura nei laboratori in cui la scienza esercita il proprio potere: quello di trascendere i confini del giusto e dell’ingiusto. L’uomo si separa dal resto del vivente – dall’animalità –attraverso una negazione raddoppiata: in un caso (Kiev) la respinge con violenza assoluta, nell’altro (Montichiari) ne cerca di conoscere e copiare, sempre con violenza, delle caratteristiche che servono ad imparare qualcosa di più sulla propria specie o, come nel caso dei laboratori di Green Hill, per sopravvivere un giorno ancora alla naturale caducità dell’esistenza. E in questo quadro, già dipinto nelle sue immagini principali col sangue dei cani nati già-morti, potremmo aggiungere la tragedia dei Pit Bull cinesi, cucinati e macellati alla stregua dei maiali ed è forse così, in ascolto del pianto di queste esistenze spente dall’umana violenza, che potremmo un giorno indignarci anche per il maiale: referente continuo dei nostri “come un”, “alla stregua di”, che rivelano il mondo di violenze in cui ne abbiamo racchiuso l’esistenza. Quello che succede a Kiev, a Lugansk, ed in altre municipalità della Polonia,  è ordinaria amministrazione. Ma questa malvagità del banale non deve fermare le nostre proteste, anzi, le deve portare a compimento certo. Di fronte ad errori reali, non relativi a questo o quest’altro sistema morale, l’uomo deve scardinare le frontiere dell’indifferenza. Del pianto dei cani morti di Kiev, di quelli di Montichiari o dei Pitbull divorati in Cina, dobbiamo fare tesoro: nessuna attività umana – meno che mai una manifestazione sportiva – può essere tanto importante da giustificare un massacro volto a nascondere, nei cassonetti e nelle fosse comuni delle città, ciò che resta dei poveri individui che noi stessi abbiamo contribuito a creare. Tra l’Ucraina e la Polonia, le stime già diffuse dalla stampa, parlano di circa 9000 cani uccisi; dopo ogni morto, diceva Terzani come corrispondente di guerra, si comincia a contarne i numeri: quello che era un individuo, diventa un’unità da sommare ai numeri dell’inferno in atto. Tuttavia, solo decostruendo l’attenzione dalla quantità dei morti, verso un ripensamento del valore di ogni singola vita, potremo davvero indignarci per quello che i nostri simili – la specie Homo Sapiens – stanno facendo ogni giorno, in ogni momento, così vicino a noi.

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3 risposte a “Il pianto dei cani morti”

  1. Bellissimo articolo.
    Tuttavia, avrei di gran lunga preferito che tu non avessi mai dovuto scriverlo.
    Voglio semplicemente dire che vorrei non ci fosse più alcun bisogno di ricordare quanto preziosa, unica, inestimabile sia la vita di ogni singolo essere vivente, umano e non umano.
    Tuttavia, visto che la specie umana sembra essere ancora molto lontana dall’acquisizione di questo semplice ed oggettivo concetto, ben vengano articoli come i tuoi.
    Buone feste! E speriamo che il Natale possa essere inteso – fuori da ogni accezione religiosa – come nascita spirituale di tutti.

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