Il nuovo realismo scopre il dolore

Mio articolo apparso per “Gli Altri” il 30 Marzo 2012

È l’era del “nuovo realismo” questo, in soldoni, è il messaggio delle 160 pagine che costituiscono il Manifesto del nuovo realismo (Laterza, 2012) di Maurizio Ferraris che seguono all’enorme dibattito mediatico, e filosofico, riguardo l’atteggiamento conoscitivo che dobbiamo avere nei confronti della realtà. Niente di difficile come potrebbe apparire, anzi. La domanda generale che muove questo eterno dibattito, vecchio e folto come la barba di Platone, è fondamentalmente una: esiste un mondo reale al di là dell’interpretazione umana? In sostanza, gli oggetti (fisici) che popolano il mondo, esisterebbero anche senza le speculazioni del bipede implume? Altra cosa, si dirà, sono gli oggetti sociali – come le multe, o i professori universitari – che sembrano esistere solo perché l’umano gioca al “gioco del sociale” o, direbbe sempre Ferraris, perché esistono delle iscrizioni che rendono oggetti bruti, come le “persone”, degli oggetti sociali come i “professori”. Ma il nuovo realismo sarà anche “nuovo”, ma non è certo ingenuo; la rivendicazione filosofica, contro l’ormai démodé postmodernismo, è proprio quella di un mondo indipendente dall’umano: un mondo fatto di sassi e terremoti, di gerani  e marmotte, di sangue e dolore. Già … proprio di sangue e di dolore: e qui si inserisce l’aspetto più interessante di questo nuovo atteggiamento nei confronti della realtà, dove si apre, finalmente, un nuovo spazio per la filosofia. L’atteggiamento postmodernista, come quello ermeneutico (interpretativo), “stressato” nelle sue conseguenze logiche, estende ironia e deoggettivazione, anche a quei fatti del mondo che costituiscono la base dell’etica, della vita sociale e politica. Il dolore – inteso tanto nella sua accezione fisica che psicologica – è quanto di più reale un filosofo interessato a comprendere «che cosa vi è» (ontologo) possa individuare. Il “nuovo realismo”, lungi da essere un’inedita teoria filosofica, è anzitutto la presa d’atto di un cambio decisivo di stagione: l’esigenza, avvertita da più fronti, di porre fine ai populismi mediatici. Le ossimoriche “guerre umanitarie”, la crisi economica, la macellazione animale e la diffusione di sofferenza direttamente proporzionale al crescere del capitalismo, pongono spalle al muro l’idea che la realtà sia costruita socialmente, oltre che manipolabile a piacimento, e che la verità e l’oggettività siano nozioni inutili. Il mondo reale, potremmo dire, si è palesato dinnanzi agli occhi dell’umano in tutta la sua freddezza: per quanto si possa sperare di vedere felicità e speranze nel sistema di produzione keynesiano, questo avrà sempre come fondamento il «sudore, il sangue, la disperazione » – direbbe Max Horkheimer – dei corpi di animali umani e non umani. L’attualità e l’importanza del “nuovo realismo” è dunque palese, la filosofia scende in strada, cammina tra gli uomini, e comprende che è arrivato il momento di agire: non possiamo più lasciare spazio ai divertissement intellettuali di certe filosofie da salotto, le vite e le morti sono reali, e non sopportano  più di essere ridotte a mere interpretazioni. Spacciando per culturali fenomeni assai violenti, gli umani giustificando sotto l’egida dell’interpretazioni crudeltà millenarie. Osservando il mondo dall’alto, la Nottola di Minerva (metafora della filosofia per Hegel) smette di arrivare in ritardo, e mal giustifica l’infibulazione Somala e le corride tanto difese da Fernando Savater, la mai cessata guerra in Afghanistan e la macellazione degli agnelli pre-pasquale, i 17 civili recentemente uccisi dal militare americano “stressato” e i visoni massacrati vivi per le pellicce di qualche elegante signora. Il terreno fertile del “nuovo realismo”, ancor più che metafisico, è senz’altro etico: possiamo finalmente smascherare la barbarie travestita da cultura, e rivendicare i diritti di tutti quegli individui che Benjamin chiamava «senza nome», nati in un limbo che li sospende tra la vita e la morte. Un bambino somalo, senza cibo e acqua da giorni, incrocia lo sguardo di una “vacca” da latte morente: entrambi piangono e si vedono uguali, silenziosi si perdono in un abbraccio di dolore mentre l’americano di Miami stringe il nodo alla cravatta per la messa domenicale. Tra le due scene, così distanti non solo spazialmente, scorre l’ipocrisia dell’ermeneutica che pretendeva di opporsi ai dispotismi della realtà preconfezionata. La nottola che volava in altro si abbassa verso i due corpi che ancora piangono, e quasi prova vergogna per aver dubitato di quanto è reale il colore delle lacrime. Il “nuovo realismo” è un’occasione epocale per tutti ma temo, che anche stavolta,  faremo la fila per interpretare tutto come l’ennesimo dibattito che riempie le pagine culturali dei giornali. Il bimbo e la vacca moriranno soli, e la nottola potrebbe smettere per sempre di volare.

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