Occhi per guardare, zampe per scrivere

apparso su Asinus Novus

In libreria, in questi giorni, due meravigliosi libretti fanno capolino tra gli scaffali. Due libri che, chiaramente incentrati sul tema dell’animalità, hanno bisogno di essere interpretati sotto una luce più chiara che riporti, al loro significato più profondo, contenuti altrimenti chiusi a letture antropocentriche. Il primo libro, La Cagnetta (Adelphi, 2013), è la traduzione italiana di tre racconti di Vasilij Grossman – il secondo, scritto commemorativo della vita di un cane, è Il mio cane (Elliot,9788845928017 2013), di Maurice Maeterlinck. Troppo spesso si dice che l’animalità sia grande assente delle letterature e delle filosofie: nulla di più falso. Il problema non sta, tanto, nell’esistenza di una certa letteratura – ma nella capacità, ormai assente, di saperla cercare: se non abbiamo l’esigenza di osservare cosa esiste, al di qua e al di là, del humane generis – ogni ricerca è preclusa.

Maeterlinck opera un tentativo di proiezione: non un racconto della vita di Pelléas (il nome del bulldog, morto a soli sei mesi, chiamato come uno dei protagonisti del dramma simoblista Pelléas et Mélisande dello stesso Maeterlinck) da parte di colui che ne ha osservato le gesta, ovvero “il padrone”, ma una storia dell’esistenza di un corpo vivente dal punto di vista, unico e irripetibile, di quello stesso corpo. Non serve, in questa sede, ricordare quanto sia stato importante in filosofia, con Jacques Derrida, ridare agli animali – non solo il ruolo di oggetti del nostro sguardo – ma anche di soggetti di altri sguardi (portatori di mondo): Pelléas, invece che essere ricordato attraverso le stanze e i vuoti di In morte di un cane (Mesogea, 2011) di Jean Grenier, viene fatto rivivere attraverso gli spazi e i pieni dei suoi dubbi (posso dormire in poltrona?), i suoi progressi (i gatti sono troppo veloci per essere presi!) e, soprattutto, attraverso la voglia di scoprire il mondo – pieno di alberi e di ombre, di raggi di luna e del vento, di sospiri e di misteri. Così Maeterlinck, vivendo come un cane, in questo suo scrivere pagine di ricordo, comprende che «tutta l’umile storia dell’essere umano è legata a quella del cane» ben oltre lo stereotipato, e umiliato concetto, del “miglior amico dell’uomo” – il cane travalica i confini di specie per avvicinarsi a noi, si allea con la nostra forma di vita violenta, quasi a ricordarci che un altro mondo – di convivenza e comunità – è possibile al di là delle barriere precostituite. Il cane ambasciatore delle forme di vita aliene, bussa al cuore annerito dell’umano, e scava rifugi per salvare la sua e le altre vite: con Grossman, attraverso gli occhi di una «piccola bastardina senza nome», osserviamo il mondo cittadino della vita specializzata, dal punto di vista di una vagabonda che cerca in ogni mano una carezza che sappia ancora accogliere il bene entro il cuore. Ma in quelle mani umane, ormai strumenti, giace solo disperazione e freddezza. Intrappolata nella notte, lavata e incarcerata, osserva da dentro l’istituto di ingegneria aereospaziale (simile per descrizione a uno di vivisezione) in 9788861923379cui viene condotta: prima di essere umiliata, dinnanzi a «una scienza che procede ciecamente, senza avvedersi del reale situazione della razza umana o di ogni altra cosa, obbediente soltanto ai bisogni psicologici degli scienziati e dei funzionari del governo e alle società che procurano i fondi per la ricerca»[1], viene nominata – resa piena di esistenza appena prima di esserne svuotata. Petruška (chiamata, non a caso, come la marionetta protagonista del celebre balletto di Igor Stravins) – cosciente che le attenzioni che l’umano le dona, a tempi scanditi da una violenta precisione, sono solo gesti piegati da una terribile avventura che la aspetta per oltre i cieli della terra non riesce, tuttavia, a non provare amore per Aleksej Georgievič – l’addestratore che la preparava a un misero destino. Ed è così che Petruška, con quello sguardo senza interessi che coinvolge in una morse di tenerezza il suo carnefice, riesce a risvegliare l’umanità in Georgievič che rivede, in quella risposta di eterno bene contro l’eterno male della cagnetta, il volto del Cristo e della salvezza: quello sguardo che avrebbe solcato il cielo oltre cielo e gli avrebbe donato infinita conoscenza e consapevolezza. Petruška vola, e poi ritorna sulla terra, dopo aver riempito l’assenza del suono spaziale di ululati tremendi: abbraccia Georgievič e lo perdona della sua ingordigia che gli svuotava il cuore a vantaggio della mente. In entrambi i casi, per Maeterlinck e Grossman, per Pelléas e per Petruška, due vite turbano i confini convenzionali dell’umano attraverso giochi di sguardi, di perdoni e di attese. Mettendosi in ascolto della carezza di una zampa si aprono mondi possibili inaspettati: in cui il parlare, il ragionare e il calcolare si fermano dinnanzi ai silenzi e ai balzi della natura. Tutto giace fermo, attraversati dagli occhi viventi di un cane – ed è da quell’amore incondizionato di Petruška, in grado del dono all’ennesima potenza, ovvero del per-dono, che la nostra specie deve ripartire.


[1] T. Kaczynski (1995), La Società Industriale e il Suo Futuro, § “The Motives of Scientists” – http://archive.org/details/IndustrialSocietyAndItsFuture-TheUnabombersManifesto

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