
È il novembre del 2003, mi pare sia il 23 o il 24: le date, come sempre, le conosce papà. Ho appena compiuto quindici anni e sto rientrando a casa da scuola in motorino, un Honda Sky blu un po’ truccato e con delle orribili manopole rosse: sul frontalino, in barba a qualsiasi pudore, svetta un enorme adesivo con su scritto “uccello rapace”. Sono un ragazzo felice, davvero felice. I limiti del mio mondo coincidono con i limiti di Catania, della mia scuola, del mio mare. Mentre sto per svoltare su via Ingegnere, la lunga via che ricongiunge la zona di Piazza Lincoln con casa mia, vedo con la coda dell’occhio l’enorme Land Rover dei mie genitori che mi si accosta per un attimo: sono un po’ stranito, mia mamma si stupisce che io non dica niente, ma io ho quindici anni e devo mostrare quanto sono indipendente, libero, rapido: accelero veloce, distratto rispetto ciò su cui mia madre voleva richiamare la mia attenzione, per far vedere che arrivo sempre primo. Li aspetto, ottenuto il primo dei tanti inutili record della mia vita, sotto casa per qualche minuto dopo aver posteggiato nel vecchio garage di alluminio che ora non abbiamo più in affitto.
Sono circa le 14, potrei giurarci, quando i miei parcheggiano il Discovery degli anni ’90 all’angolo con via Biancavilla; mi avvicino e mia madre esce con un piccolo cucciolo di cane biondo, con un pelo così biondo che sembra Raffaella Carrà, meticcio tra non abbiamo mai capito bene cosa (Labrador e pastore tedesco, ogni tanto provava qualcuno), e me lo mette in braccio. Sono confuso, stranito … “dovrebbe chiamarsi Fragolino, ma preferiamo Pepe: viene da un vivaio, la madre e il fratello sono morti, papà ha voluto che lo tenessimo con noi”. Da quel momento, la mia esistenza, si è “aperta”.
La vita è un sistema complesso di cui, dopo un po’, ricordiamo solo le interruzioni a un flusso unitario: i ricordi, come le sensazioni, si ancorano al bello e al brutto. Il “normale”, che invece dovremmo tenere in considerazione come nulla al mondo, semplicemente ci sfugge. Prima di quel novembre del 2003 per quel ragazzo felice, quindici anni e tutta la vita davanti, gli animali erano degli sconosciuti. Certo, intendiamoci, anche io almeno una volta da bambino ho detto che se non avessi fatto il guardiano del faro avrei fatto il veterinario, ma questa è un’altra storia che adesso non mi riguarda. Alla fine, forse, gli animali li ho aiutati di più con le parole.
È il 3 luglio del 2017. Sono a Torino, al Politecnico, dove nella sede di Corso Duca sto interrogando circa 30 dei miei studenti di filosofia. Fa un caldo boia, oggi non sto bene. Mia madre al telefono era strana, è qualche giorno che ho la schiena che mi fa male, che sono triste, che ho una sensazione brutta ma che non mi spiego. Maria, abituata alla mia stranezza, mi dice giustamente di stare tranquillo. Sono circa le 16.40, in pausa con una persona che è venuta a parlarmi, quando ricevo una telefonata, quella telefonata che aspettavo in un incontro che avrei voluto mancare: “Leo, sei ancora in università? Senti … Pepe non c’è più, siamo stati con lui fino alla fine. Lo portiamo nell’Etna, nella natura …”. Ho pianto, esploso. Sono scappato. Come sempre, in questi casi, sono andato a stare in silenzio da Valentina.
È difficile, almeno lo è per me, descrivere cosa sia un inizio e una fine, eppure non è difficile provarne le conseguenze. Il linguaggio, e questo me lo ha insegnato proprio Pepe, descrive solo i margini dell’esistenza. Dopo circa quindici anni la mia vita da ragazzo, quella vita felice che dura lo spazio di un ricordo, era finita. Con Pepe, e il suo sguardo silenzioso ma curioso, un’estremità che pensavo infinita mi ha mostrato il suo confine. Tutti i suoi oggetti, i regali che gli facevo, le pettorine, le “ciccie”, tutto: tutto era già ricordo. Per alcuni la morte di un cane è grave, certo, ma non gravissima: “ne troverai un altro”, “ha avuto una vita felice”, “in fondo era vecchio”, “non stava più bene, meglio così”, “passerà in fretta”. Frasi, tutte, di un’enciclopedia dell’ovvio che aiuta a incrementare un dolore indicibile: non la perdita di “un cane”, neanche del “mio cane”, ma la perdita di “Pepe”. Di una vita, che era anche la mia; di uno sguardo, sempre un po’ malinconico, che era anche quello di mia madre; di una forza, elegante, che era anche quella di mio padre.
Pepe, il mio cuore, il mio respiro. E come si può vivere senza respirare? Come vivrò, io, adesso, senza poter più respirare? Respirarti? Annusarti?
Queste interruzioni al flusso unitario che chiamiamo vita, adesso, si accavallano infami: Pepe piccolissimo, che mangia i bordi dei divani; Pepe, meno piccolo, che finalmente fa la sua prima cacca all’aperto; Pepe, mangione e vitale, che mentre addento il pollo all’arrabbiata con Flaminia ci tortura per averne un pezzettino; Pepe, silenzioso, che mi ha spiegato per primo i motivi per cui avrei dovuto smetterla di mangiare quel pollo poi non così diverso da lui, che mi ha aperto la porta verso gli animali, che mi ha insegnato a “sdraiarmi a terra” con loro. Pepe, leggero, che dorme ai piedi del divano del mio ritorno estivo che ora non esiste più. Si interrompe, la vita, e mi brucia ogni parte del corpo: non dormo, non parlo, non piango, non cammino. Sto andando a fuoco? Mi sembra ingiusto, e la filosofia non mi ha aiutato, non esserci stato nei suoi ultimi anni: “come sta, mamma? ha mangiato?”. Ogni estate, ogni Natale, ogni Pasqua, Pepe mi aspettava in balcone, il nostro minuscolo balcone pieno di piante e di vita: zampa penzolante, come quando tornavo da scuola per vedere i Simpson, e iniziava ad abbaiare per avvisare i miei che era arrivato il momento di accendere il fuoco per la pasta. A lui, in effetti, interessava mangiare anche la mia porzione. Pepe, che ha modificato la nostra casa; Pepe, scappato per paura dei botti e cercato insieme al nonno che poi è andato via, prima di lui; Pepe, con mio papà al parco di Vulcania dove insieme ad altri cani e umani hanno costruito un’area tutta per loro; Pepe, che ha vinto il premio coda più lunga; Pepe, a cui raccontavo tutto, preso per pazzo da tutti, e che giuro poteva capire (lo giuro, lo giuro, Pepe mi capiva: Pepe capiva); Pepe, che non può davvero essere morto, perché allora sono morto anche io. In morte tua, la mia. La nostra.
È il 4 luglio del 2017. Non ho chiuso occhio: è iniziata la vita senza di lui. I miei genitori, non piangono, sono lacrime. Sono divenuti lacrima. Io piango all’improvviso, mentre cerco di fare dell’altro, ma finalmente mi accorgo che non c’è dell’altro. E che ogni cosa importante, per quegli inutili record della mia vita, io l’ho semplicemente persa: osservata da lontano entro i bordi di carta di una sofferenza indescrivibile. Dal balcone di casa vedo un cane, è sempre stato là ma è la prima volta che lo guardo davvero. Nei suoi occhi, non vedo Pepe, perché ogni vita è diversa, “ogni angelo”, del resto, “è tremendo”. Chi dice che un cane vale l’altro meriterebbe di non essere ascoltato: perché ogni idiozia, in fondo, ne vale un’altra. I miei quindici anni al suo arrivo, i nostri quindici anni insieme: tutto, adesso, è davvero finito. La fine, esiste. C’è questo libro piccolo e feroce di Jean Grenier che si chiama In morte di un cane: la stanza, la stanza del suo cane, diventò per lui un luogo inaccessibile della casa. La stanza di Pepe, per noi, era ovunque e tutto, oggi, ci sembra forse inaccessibile.
Avevo quindici anni, oggi quasi ventinove. La mia gioventù ha un arco temporale netto, peloso e biondo, ed è andata estendosi correndo a quattro zampe. Ogni cosa che ho fatto per gli animali, l’ho fatta per Pepe. Ogni cosa che ho fatto per gli umani, per Pepe. Ogni cosa, Pepe. Tutto, forse, passa davvero: come è passato Pepe, senza disturbare, leggero a ricordarci che l’amore non è qualcosa che si dice ma che si fa. Passerà anche questo dolore, è evidente, come passerò anche io. La vita è una prospettiva: chissà quante altre cose succedevano mentre con quel motorino acceleravo verso il più importante incontro della mia vita. Chissà, in quella stessa via, quante altre persone stavano per cambiare, quanti altri animali per iniziare a vivere o morire. “Ma io, sono io”, e questa frase è vera per tutti: ho osservato le cose come ho potuto, ed ho sofferto. Come voi, certo, ma a mio modo.
Questa che ho messo qui è la mia ultima foto, il nostro ultimo sguardo. Non ho più niente da dire, e forse non ne parlerò mai più: adesso, tra me e me, devo solo rassegnarmi. Rassegnare la vita al suo scopo: nessuno. Addio Pepe, mio amore. Con te muore ciò che resta di una vita felice. Sarai sempre la parte più bella di me.
Ci rivedremo, tutte le notti nei miei sogni, insieme agli altri che mi hanno abbandonato e che mi attendono, non so dove, ma so perché.
Torino, 4 luglio 2017.
Una replica a “3 luglio 2017. In memoria di Pepe”
questo genere di amore così esplosivo e puro che solamente un cane (ma di sicuro anche un altro animale che noi si possa avere la fortuna di conoscere così da vicino e per così tanti anni) ci può far conoscere ed esprimere, ci riporta a galla: riporta alla luce del sole quel che noi siamo davvero, onde di sentimenti ed emozioni non filtrste. la gioia. il dolore.
un cane che muore è un pezzo di te che va altrovel, eppure ti rimane addosso.
Lo so che lo sai che sei stato fortunato a incontrare Pepe. Tornerà in sogno a trovarti, chissà, forse saà proprio lui e non solo una proiezione del desdierio. Un abbraccio grande.
(PS: quello che hai scritto sul vosro primo inontro mi ha davvero colpito: ecco qualcosa a cui non pensavo più, consciamente: la prima volta, – eppure ogni tanto mi ci sono soffermsto, ma mai così consapvevolmente e di proposito. Ho scritto tanto e rifletuto tanto sul litto, ma non sul primo incontro).