Oggi inizia la mia collaborazione con il bazar atomico – podcast di cui ero già stato ospite.

ho scritto di ucraina, guerra, valori europei.
In un’epoca segnata da conflitti sempre più vicini a una guerra totale (o quasi), l’Occidente si trova di fronte a un bivio esistenziale: riscoprirsi o perdersi definitivamente nel labirinto delle distrazioni globali. Oggi più che mai, in questa fase di guerra ibrida e pervasiva, dobbiamo interrogare il nostro essere collettivo, non come un esercizio nostalgico, ma come un atto di resistenza filosofica che Immanuel Kant chiamava appunto “Europa, o pace perpetua”. L’Occidente non è solo un territorio geopolitico; è un’idea, un’architettura di valori che, logorata dal tempo e dalle contraddizioni interne, rischia di collassare sotto il peso delle sue stesse illusioni o dei paradossi del colonialismo. Pensiamo alla guerra in Ucraina: non è un conflitto lontano, periferico, ma la nostra guerra, un specchio crudele in cui si riflette la crisi dell’identità occidentale. È “nostra” perché incarna la difesa ultima dei principi che ci definiscono – libertà, democrazia, sovranità individuale – contro l’assalto di un autoritarismo che non tollera il pluralismo. Eppure, mentre i missili piovono su Kyiv, noi ci occupiamo di tutto tranne che di noi stessi: dibattiti sterili su identità fluide, correzioni morali infinite, pietismi globali che diluiscono la responsabilità verso il nostro nucleo vitale. Eppure, senza l’occidente europeo, non cis sarebbero questi stessi dibattiti: è la dialettica dell’illuminismo … va criticato, certo, ma senza dimenticare che è illuminismo stesso che ci ha dato gli strumenti di critica.
Proviamo a decostruire questa deriva. L’Europa, culla dell’umaneismo e delle rivoluzioni democratiche, deve ricostituirsi come polo centrale del mondo, non come un’entità periferica schiacciata tra superpotenze. Per troppo tempo ha ceduto al pietismo – quel compassionevole sguardo verso l’altro che maschera l’incapacità di affrontare i propri demoni interni: disuguaglianze crescenti, erosione delle istituzioni, alienazione delle masse. Il pietismo, figlio bastardo del postcolonialismo, ci induce a espiare colpe storiche proiettandole su ogni crisi esterna, mentre il moralismo – quella tirannia della correttezza politica – ci imprigiona in un discorso vacuo, dove ogni parola è pesata non per la sua verità, ma per il suo impatto emotivo. Basta con questo spettacolo: l’Europa deve smetterla di flagellarsi in nome di un universalismo ipocrita e tornare a occuparsi dei suoi problemi (fa più notizia decolonizzare la foresta amazzonica che la Sicilia!). Le migrazioni incontrollate, la precarietà economica, la crisi ecologica che minaccia le nostre città – questi sono i fronti interni da presidiare, non con retorica, ma con azioni concrete (e chi scrive parla da sinistra, non da destra). Solo così potremo ripristinare un elogio autentico delle nostre tenute democratiche: non le strutture burocratiche corrotte, ma i principi fondanti – il dibattito libero, la separazione dei poteri, il rispetto per l’individuo – che oggi vacillano sotto l’assalto del populismo e della sorveglianza digitale.
La guerra in Ucraina amplifica questa urgenza. Non è solo un’invasione territoriale; è l’incarnazione filosofica di un clash tra mondi. Da un lato, l’Occidente post-modernista, frammentato in mille identità ibride, che ha smarrito il senso del limite; dall’altro, un imperialismo russo che rivendica un’essenza monolitica, radicata in un passato mitizzato. Perché è la nostra guerra? Perché qui si gioca la sopravvivenza dei valori occidentali: la democrazia non come forma vuota, ma come pratica vivente di resistenza all’oppressione. Kyiv non è solo una città assediata; è il simbolo di un’Europa che deve riscoprire la sua centralità, non attraverso armi sole, ma attraverso una rinascita culturale. Pensiamo a Wittgenstein, le cui ceneri filosofiche ci ricordano che il linguaggio – e con esso i valori – si dissolve nel silenzio se non lo difendiamo. In Ucraina, il conflitto ci costringe a confrontarci con la finitezza umana: la morte, la distruzione, ma anche la resilienza artistica e intellettuale che ho toccato con mano nei miei viaggi lì. L’odore di Kyiv, misto a polvere e speranza, è l’odore della nostra fragilità condivisa. È nostra perché, se l’Ucraina cade, cade l’idea stessa di un Occidente capace di opporsi al nichilismo autoritario.
Ma come ritrovare questi valori in un momento di messa in discussione radicale? Il paradosso è evidente: oggi ci occupiamo di tutto (e giustamente perché sono questioni su cui ho speso la vita) – cambiamenti climatici, diritti animali , algoritmi che ci governano – tranne che di riscoprirci europeii. Questa distrazione è figlia della società dello spettacolo, dove il conflitto viene orizzontalizzato in micro-aggressioni quotidiane, mentre il vero nemico – l’erosione interna – avanza inosservato. Per invertire la rotta, dobbiamo abbracciare un postumanesimo critico: non quello che dissolve l’umano nel non-umano, ma uno che lo rafforza riconoscendo i limiti. Ritrovare noi stessi significa tornare alle radici filosofiche – da Kant a Hegel – per un super-antropocentrismo che salvi l’umano dal suo stesso eccesso. Smettiamola con il moralismo che anestetizza: la democrazia non è pietà, è lotta. L’Europa deve reclamare la sua escape velocity, quella velocità di fuga dalle orbite obsolete, per proiettarsi verso un futuro dove i valori non sono negoziabili.
In questo breve intervento pronto ai soliti commenti violenti sui social, provo a invitare a un atto di ribellione interiore: “spegnere i social” (paradossale detto qui no?) che deviano il pensiero, rifiutate il pietismo che ci rende complici passivi, elogiare le tenute democratiche non con parole, ma con pratiche. La guerra in Ucraina ci insegna che il conflitto non è solo distruzione, ma opportunità di rinascita. Solo riscoprendo noi stessi – nel cuore dell’Europa, al centro del mondo che ci permette di occuparci anche dell’altro da noi – potremo superare questa fase, trasformando la crisi in un nuovo inizio filosofico. Perché, in fondo, l’Occidente non è un luogo: è un’idea che muore se non la viviamo con la responsabilità di difenderci prima che tutto ci crolli addosso.
















